Intervento della presidente Mareschi Danieli alla presentazione del Report sull'economia regionale di Banca d'Italia

Veniamo da un periodo di lock down, di fermo produttivo per la maggioranza delle imprese, e le ripercussioni sulla crescita globale sono indubbiamente pesanti.

È stato calcolato che, quest’anno, si registrerà a livello globale la più diffusa diminuzione del reddito in termini pro capite dal 1870.

Per l’Italia, basterebbe citare parte di quanto esposto dal Governatore Visco sulle ricadute sull’economia e sulle ripercussioni finanziarie a seconda della durata ed estensione della pandemia: il suo scenario di base prefigura un calo del Pil del 9,2 per cento, mentre in un secondo scenario, basato su ipotesi più pessimiste – coerenti tra l’altro con la necessità di contrastare possibili nuovi focolai – la diminuzione del Pil sarebbe del 13,1 per cento. Come vediamo, le previsioni peggiorano e l’auspicato rimbalzo, più fisiologico che effettivamente prevedibile, è quantomeno di dubbio impatto.

Qui oggi siamo concentrati sul Friuli Venezia Giulia. Quindi mi concentro sui dati del nostro centro studi di Confindustria Udine riferiti alla provincia di Udine.

L’impatto improvviso a marzo del Covid-19 sull’industria della provincia di Udine è stato decisamente pesante. Abbiamo visto delle slide che indicano che la liquidità delle imprese della regione si è mantenuta su alti livelli, innanzitutto ritengo che i livelli siano stati considerati in termini assoluti e non in termini di sostenibilità economico finanziaria. Inoltre ritengo non si sia preso in considerazione il fatto che le nostre imprese sono perlopiù sottocapitalizzate, quindi partono da una situazione di bassa liquidità. Inoltre non dimentichiamo che la cassa integrazione guadagni ha osservato un’esplosione. È ovvio che per ora le imprese mantengono una certa stabilità. Ma da qui a dire che la situazione per questo motivo non è preoccupante sinceramente non sono d’accordo. Le ore autorizzate in provincia di Udine sono passate dalle 238.515 (138.858 riguardanti l’industria) dei primi 4 mesi del 2019 alle 9.690.705 (8.393.792 riguardanti l’industria) del 2020. Di queste, il 91%, pari 8.845.339 ore si riferiscono al solo mese di aprile, superando il picco mensile dell’agosto 2011 con 2.299.256 ore.

Le misure di contenimento e di contrasto per limitare la diffusione della pandemia hanno determinato un doppio shock negativo: dal lato della domanda con il rinvio delle decisioni di investimento da parte delle aziende e di spesa da parte dei consumatori e con l’azzeramento dei flussi turistici, dal lato dell’offerta con il blocco di numerose attività produttive.

La fine del lockdown non genererà un immediato rimbalzo per una serie di fattori, ovvero: le imprese dovranno smaltire le scorte accumulate, sia per assenza di nuovi ordini, sia per la cancellazione di ordini già presenti in portafoglio; la domanda estera risentirà della contrazione del commercio mondiale; le famiglie continueranno ad essere prudenti e a risparmiare a scopo precauzionale.

Come prevedibile, lo scenario recessivo che ha caratterizzato la prima parte dell’anno in corso appare abbastanza generalizzato a livello settoriale, salvo alcune eccezioni.

L’industria meccanica provinciale, dopo la crescita registrata nel 2017 e la decelerazione nel 2018 e nel 2019, ha subito una pesante caduta nel primo trimestre 2020 rispetto allo stesso periodo dello scorso anno.

L’industria siderurgica, dopo un biennio 2017-2018 positivo (+2,1%) e una brusca frenata lo scorso anno (-3,5%), ha registrato un crollo nei primi tre mesi di quest’anno: -7,4%. Nell’industria del legno e dei mobili, al calo del 2019 (-3,9%) è seguito un vero e proprio tracollo nel primo trimestre 2020: -11,9%.

In forte diminuzione nei primi tre mesi di quest’anno i volumi prodotti nel comparto dei materiali da costruzione, -13,9% mentre sono aumentati nel comparto della chimica, +1,8%.

L’industria alimentare e quella della carta, pur segnando una variazione tendenziale negativa rispetto al primo trimestre 2019 (rispettivamente -4,9% e -2,7%), hanno registrato, non avendo interrotto la produzione, una crescita rispetto al quarto trimestre dello scorso anno (rispettivamente +1,9% e +3,8%).

Con riferimento all’occupazione, in provincia di Udine, secondo le elaborazioni dell’Ufficio Studi di Confindustria Udine su dati dell’Osservatorio del lavoro della Regione, nel periodo gennaio-marzo 2020 le assunzioni hanno riguardato 19.045 rapporti di lavoro, -14,2% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.

Questo enorme calo ha riguardato in primis il comparto alberghi e ristoranti, seguito da vicino dal settore manufatturiero e da quello delle costruzioni.

Per quanto riguarda Le cessazioni sono state pari a 17.306 unità, con un saldo positivo di 1.739, notevolmente inferiore a quello registrato nei primi tre mesi del 2019 e del 2018.

Nel complesso dei settori economici la tipologia contrattuale prevalente, nel primo trimestre 2020, è rappresentata dal rapporto a tempo determinato pari a ben il 49,2% del totale. Seguono il lavoro in somministrazione, il rapporto a tempo indeterminato.

Anche nel manifatturiero la tipologia contrattuale maggiormente utilizzata, come era ovvio che fosse, è il rapporto a tempo determinato.

Sicuramente la situazione è complessa, ma mi sento di dire che le vie di uscita ci sono e faremo ogni sforzo per percorrerle. Dobbiamo essere però estremamente flessibili, aperti ai cambiamenti e pronti ad affrontare le diverse variabili che si presenteranno.

Le istituzioni pubbliche dovranno essere capaci di gestire un eventuale ritorno dell’emergenza sanitaria con tempestività ed efficacia, di individuare e mettere in pista tutti gli incentivi per una rapida ripresa, di cogliere l’occasione storica per realizzare le riforme strutturali e istituzionali che il paese aspetta da decenni, cosa che fino ad ora sinceramente non abbiamo visto. Come uso dire, abbiamo assistito ad una “deparlamentarizzazione” del sistema di governo, ad una sorta di “risucchio” di democrazia senza avere in ambio l’“efficienza” dei regimi autoritari. Noi da parte nostra non dobbiamo mai smettere di pretendere competenza dalla squadra di governo.

Tempestività ed efficacia per le imprese diventano oggi vitali per la propria competitività, già messa a dura prova.

Non possiamo negare che il mutato atteggiamento dell’Europa, in particolare nei confronti dei paesi più colpiti dalla pandemia come il nostro, rappresenti una discontinuità e opportunità in primis per la creazione finalmente di una vera e propria Europa federale.

È stato sospeso il patto di stabilità, è stata rinviata l’applicazione di Basilea 3 per consentire il rafforzamento delle capacità delle banche di dare risposte all’intero sistema economico, si stanno definendo i regolamenti per la concessione dei diversi fondi europei.

Una recente notizia, altrettanto importante, è la decisione dell’EBA, l’Autorità bancaria europea, di prorogare la data di applicazione dei suoi orientamenti in materia di moratorie. La crisi conseguente all’emergenza epidemiologica è nel suo pieno svolgimento e le imprese sono in sofferenza, quindi serve continuare a sostenerle con tutti i mezzi.

La proroga renderà ancora più efficace e incisivo il recente Addendum alla moratoria negoziale firmata da Confindustria e le altre categorie con ABI il 22 maggio scorso e che sta rappresentando un concreto supporto per il sistema produttivo. In particolare, ne beneficeranno le grandi imprese e potrà consentire alle aziende di tutte le dimensioni dei settori e delle filiere più colpite di ottenere dalle banche sospensioni dei mutui fino a 24 mesi.

Segnali positivi, va detto, che ce ne sono.

Il 2019 è stato l’anno record dei mercati finanziari: 23 mila miliardi su Borse e bond. Tutte le principali classi di investimento – anche quelle che storicamente hanno avuto un andamento fortemente deteriorato come oro, dollaro e obbligazioni – sono state fortemente in rialzo. E quelle che pensavamo fossero previsioni catastrofiche per il 2020? Tutt’altro: i mercati finanziari sono spinti dai venti della ripresa e le Borse colano ai livelli pre-lockdown. Vorrà pur dire qualcosa.

Vuol dire che un certo grado di ottimismo sulla ripresa c’è.

Nella stessa direzione vanno anche le considerazioni di Paolo Savona nella sua recente relazione. Il presidente di Consob rileva che a fine 2019 le famiglie italiane disponevano di una ricchezza immobiliare, monetaria e finanziaria, al netto dell’indebitamento, pari a 8,1 volte il loro reddito disponibile, di cui 3,7 volte in forma di attività finanziaria, per un ammontare di 4.445 miliardi di euro. Gli italiani sono quindi tutt’altro che “cicale”, come una distorta vulgata tende a sostenere.

Ma quello che è più sorprendente è che nella prima parte del 2020, nonostante la gravità della pandemia e i timori per gli effetti sull’economia, il risparmio ha reagito positivamente ricompensando gli investimenti a favore della moneta. Le manifestazioni più gravi si sono verificate nelle Borse valori, ma va sottolineato che in Italia la perdita di valore delle azioni quotate è stata addirittura inferiore rispetto a quella registrata dalle altre Borse estere.

È un importante segnale di fiducia nei confronti del nostro Paese. Certamente non basta: la solidità e “resilienza” del risparmio italiano è condizione necessaria, ma non sufficiente affinché affluiscano risorse verso il capitale produttivo.

È vero che la crescita dei depositi bancari è indice di solidità, ma letta dall’altra parte riflette i timori delle famiglie, che non spendono, e quelli delle imprese, che non investono. Siamo entrati in una fase di congelamento generale: il Coronavirus ci ha trascinati in una recessione con una velocità incredibile che ora è come zavorra per la nostra ripresa.

Non aggiungo nulla sulla questione del debito pubblico italiano, dico solo che questo è ora affiancato da un maggiore indebitamento privato da parte dei produttori. Basti considerare la strada scelta nel Decreto legge “Liquidità” con la disponibilità delle garanzie di Mediocredito e di Sace, che per contro implicano un maggiore indebitamento da parte delle imprese. Certo siamo consapevoli che lo spazio di manovra era ben poco ma almeno vogliamo pretendere che la PA rimborsi i suoi insoluti? O anche in questo caso dobbiamo accettare che le regole valgono solo per i privati?

Forse nel suo discorso il professor Savona fa riecheggiare un po’ troppo il monito “Oro alla Patria!”: indurre gli italiani ad essere più patriottici usando il bastone della patrimoniale e la carota dei risparmi è un po’ come dire ai contribuenti che possono assolvere un’eventuale patrimoniale in contanti (quindi perdendo la somma per sempre) oppure sottoscrivendo “spontaneamente” un titolo di stato a lunghissimo termine (si chiama “irredimibile”, come ai tempi di guerra, appunto) che tuttavia paga un tasso di interesse “patriottico”, ossia inferiore a quello di mercato.

Ma un’alternativa alla patrimoniale, che valorizzi lo straordinario risparmio degli italiani e contemporaneamente contribuisca ad una maggiore patrimonializzazione delle imprese, c’è: incentivare i risparmiatori privati cittadini italiani ad investire nella capitalizzazione delle imprese non quotate, soprattutto se di più piccole dimensioni.

Bisogna farlo in maniera incisiva e tempestiva e qui mi riallaccio a quanto ho già sostenuto: una produzione “bulimica” di norme genera lentezza nell’azione amministrativa e – paradossalmente – crea immobilismo, oltre al fatto che troppe leggi inutili indeboliscono quelle necessarie. Basti pensare ai cosiddetti Pir, i Piani individuali di risparmio, strumenti dal grande potenziale come alternativa al credito bancario, che però non riescono a decollare perché il decreto “Rilancio” li ha modificati per la quarta volta in meno di due anni.

La certezza della norma e la sua stabilità nel tempo sono prerogative fondamentali per attrarre investimenti. Purtroppo mi rendo conto di dire ovvietà ma evidentemente serve ribadirlo.

A proposito di incentivi, c’è un altro grande tema che richiede un nuovo approccio: il ruolo della piccola impresa, troppo spesso dimenticata e trascurata, ma che ricopre una funzione insostituibile, come ha evidenziato la pandemia.

Chi critica il sostegno alle piccole imprese ritiene che siano risorse sprecate, ma proviamo a guardare quello che hanno fatto altri paesi, come Stati Uniti, Francia e Germania, che – tra l’altro – hanno molte più imprese di grandi dimensioni di noi.

Tra le misure più significative del Cares Act americano c’è un programma per erogare finanziamenti a tasso agevolato per le imprese con meno di 500 dipendenti, trasformabili in contributi a fondo perso se si rispettano alcune condizioni, come il mantenimento dei livelli occupazionali. A metà giugno erano stati erogati 4 milioni e mezzo di prestiti per un totale di 512 miliardi di dollari! E vi assicuro che questa si che si è trattata di liquidità immediata.

La Germania ha destinato ben il 30 per cento della sua manovra straordinaria alle micro e piccole imprese per un totale di 70 miliardi di euro di sostegni diretti e 800 miliardi di euro di garanzie pubbliche.

La Francia ha stanziato 18 miliardi solo al turismo, settore caratterizzato da piccole e medie imprese e ha potenziato il programma lanciato nel 2018 per la transizione digitale delle aziende di più piccole dimensioni. Ma non si tratta solo di aiuti finanziari: proprio nei giorni scorsi la Francia ha approvato una norma vincolante che impone di riservare alle Pmi una quota di almeno il 10 per cento degli appalti pubblici.

Esempi da seguire invece di alimentare contrapposizioni tra grandi e piccoli che non producono alcun beneficio, anzi danneggiano il nostro Paese. E lo dico proprio con lo sguardo della grande impresa!

Soffermiamoci infine sui temi che stiamo affrontando in questa sede. Oggi il credito è visto come un modo per tamponare le esigenze congiunturali, ma le aziende hanno diverse fasi di approccio in base alle diverse fasi di vita, quindi l’accesso in maniera veloce e diretta diventa fondamentale per la crescita.

Dobbiamo ammettere che il nostro Paese ha una scarsa cultura finanziaria e quello di cui abbiamo bisogno, ora più che mai, è proprio un cambiamento culturale. Sia per le imprese, sia per le banche, che forse potrebbero aiutare tutti a fare un passo avanti adottando modelli di valutazione ed erogazione del credito più attuali, come la valorizzazione degli “intangible”.

Dobbiamo essere innovativi, vi dicevo, per dare concretezza alla parola “rilancio”. Dobbiamo innestare una nuova cultura tecnologica e finanziaria per essere competitivi.

A questo possiamo arrivare soltanto se saremo capaci di intraprendere un percorso di dialogo fra politica, imprese e cittadini. Proprio quella democrazia “negoziale” che Confindustria ha proposto nel documento “Italia 2030” presentato agli Stati generali.

Produttività, qualità ed efficienza della spesa pubblica, sostenibilità del debito pubblico. Sono queste le tre priorità per lo sviluppo che Confindustria ha posto all'attenzione del Governo agli Stati generali dell’Economia. In quella sede sono stati ripresi anche i temi del nuovo lavoro e della sua organizzazione, della formazione, delle politiche attive, del sistema del welfare, degli investimenti necessari a far ripartire l’economia.

Su questa agenda serve una grande alleanza pubblico-privato nella quale il decisore politico dialoga incessantemente con le rappresentanze del mondo dell’impresa, del lavoro, delle professioni, del terzo settore, della ricerca e della cultura. Le decisioni spettano alla politica, ma devono essere il risultato di proposte che emergono dal basso, dall’economia reale.

L’Europa ha grande fiducia nel nostro Paese. Nutriamo la speranza che i fondi che arriveranno dalla UE abbiano una destinazione vincolata, precisa, che non lasci spazio di decidere solamente per le ennesime mosse assistenziali, ma che obblighi invece all’aumento della produttività, che è l’unico metodo efficace per rialzare il Pil, creare lavoro e valore da poter poi distribuire, auspicabilmente anche riducendo gradualmente il debito pubblico.

Ora serve grande senso di responsabilità da parte di tutti, e così l’Italia ce la farà.

 

Di seguito il Report completo