La peste suina in Cina mette in ginocchio le nostre imprese

“Un intero settore produttivo in ginocchio. Alcune aziende purtroppo già in crisi conclamata. Molte altre pronte a seguirne il destino, se non si fa subito qualcosa. Conseguenze in arrivo anche per le tasche dei consumatori. L’Italia e l’Europa intervengano, prima che un intero settore produttivo rischi di essere spazzato via”.

L’allarme è del vice presidente vicario di Confindustria Udine, Cristian Vida. Riguarda la filiera nazionale di trasformazione della carne di maiale, che sta facendo pesantemente i conti con l’epidemia di peste suina che ha colpito la Cina un anno e mezzo fa e ora sta influenzando anche il mercato domestico. Vediamo come.

Tutto ha origine dalla peste suina africana - mortale per gli animali, totalmente innocua per gli umani - che ha decimato i capi in Cina. L'abbattimento preventivo di massa è stata l'unica soluzione possibile per Pechino (di gran lunga il primo consumatore al mondo di questa carne) e si stima che dei 440 milioni di maiali cinesi ne siano andati persi oltre il 40 per cento. Per la popolazione cinese la carne di suino è la prima fonte proteica.

La prima conseguenza è stata un rincaro dei prezzi in ambito asiatico, poi è seguito un massiccio ricorso alle importazioni. L'onda lunga di questo tsunami di mercato si è propagata in tutto il mondo, amplificata dal concomitante intreccio con la guerra dei dazi tra Usa e Cina, che alla fine è stata costretta a aprire le frontiere alla carne statunitense, nonostante le tensioni commerciali in atto. Anche l’Europa, nel primo semestre del 2019, ha visto crescere il commercio estero di carni suine verso la Cina del 42%, arrivando a pesare per quasi la metà del totale, con Germania e Spagna a guidare la pattuglia degli esportatori.

Pure i nostri macellatori, seppur in misura minore e solo dal marzo di quest’anno, sono della partita e possono sorridere visto che la Cina consuma anche le parti che per noi sono scarti (orecchie, teste, piedi e interiora) e trasforma così un costo in un ricavo aggiuntivo di 15-20 euro per capo. Ma va sottolineato il fatto che il nostro sistema di allevamento non è in grado di approfittare di questa situazione, considerato che già oggi l’Italia produce soltanto il 60% della carne che trasforma o consuma. Dunque, da un lato non è in grado di garantire l’autosufficienza del nostro Paese, dall’altro non è attrezzato a inseguire un mercato che si è trasformato in una sorta di ottovolante.

Siccome i guai non vengono mai da soli, dal 18 ottobre sono scattati anche i dazi USA sull’agroalimentare Made in Italy. Tra i prodotti colpiti dal dazio aggiuntivo del 25% ad valorem rientrano i salami e le mortadelle (non sono previsti dazi aggiuntivi, invece, per i prosciutti crudi stagionati - né in osso né disossati -, gli speck e i prosciutti cotti). Da notare che gli Stati Uniti rappresentano il secondo mercato export per questo comparto.

A tutto ciò si aggiunge la recente proroga dell’embargo russo fino al 31 dicembre 2020. Al momento della chiusura (agosto 2014) la Russia valeva per le esportazioni italiane di soli salumi ben 19 milioni di euro.

Così, se un paio di categorie, quella degli allevatori e dei macellatori, teoricamente possono beneficiare dell'apertura della via ad Est e dell'aumento dei prezzi, ce ne sono altre che intanto vanno in pesante difficoltà. Sono quelle della trasformazione delle carni, che già non stanno attraversando una fase brillante. Le esportazioni italiane di salumi nel primo semestre 2019 sono rallentate. Secondo Assica, nel periodo gennaio-giugno le vendite all’estero di prodotti della nostra salumeria si sono fermati a quota 86.544 di tonnellate (-0,8%) per un fatturato di 729,5 milioni di euro (-0,3%). A questa mancanza di vendite si somma l’incremento vertiginoso del costo dei tagli della carne, salito dal 30 al 50% in pochissime settimane. Tendenza che, secondo il centro studi di Rabo Bank (uno dei riferimenti del mondo agricolo per quanto riguarda le previsioni degli andamenti futuri) non si fermerà per almeno 36 mesi, tempo necessario alla Cina per ritornare alla produttività persa.

"I salumifici sono letteralmente con l’acqua alla gola", conferma Cristian Vida. Nell'industria della trasformazione, dove il costo della materia prima pesa per il 50-75% dei costi totali, "aumenti del genere sono impossibili da sostenere internamente, quindi con l’obbligo di trasferirli lungo la catena della distribuzione. La redditività è sempre più compressa e sta diventando un problema enorme, direi di sopravvivenza".

“L’industria di settore – rimarca Vida - in questa fase è compressa fra i prezzi sempre più alti della materia prima e le richieste di contenimento dei prezzi di vendita per sostenere i consumi. Queste condizioni mettono seriamente a rischio non solo l’eccellenza qualitativa delle nostre produzioni di salumeria, ma la continuità stessa delle produzioni e la stabilità produttiva dei salumifici e, in ultima analisi, dell’intera filiera di produzione”.

Che fare, allora, visto che il riequilibrio delle dinamiche di mercato richiederà tempi lunghi?

“E’ indispensabile - afferma Vida – che la politica locale e nazionale proceda con urgenza a un confronto con tutte le componenti della filiera, dall’allevatore al consumatore, per tutelare la qualità di un asset industriale, con relativi posti di lavoro, know how e creazione di valore, ma anche un patrimonio di cultura, tradizioni e storia qual è quello rappresentato dalla grande varietà dei salumi italiani”.

“L’Italia e l’Europa – conclude Vida – non possono assistere passivamente, da spettatori, a questo stato di cose. Nessuno si sogna di mettere in discussione il libero mercato, ma tale premessa non può e non deve diventare un alibi all’inerzia per chi ci governa. Gli altri Paesi difendono con determinazione e con tutti i mezzi a disposizione i propri interessi. Anche noi dobbiamo fare altrettanto in chiave nazionale e continentale, prima che prima che sia troppo tardi. Le imprese italiane del settore lo chiedono a gran voce”.

A tal proposito, Assica ha organizzato un primo confronto a livello nazionale il 26 novembre, alla presenza del ministro dell’agricoltura Bellanova.